NEGLI ANNI  '70 -'80

.   Sirio D’Argenti (Como, Como, 1972) dalla recensione di  Nuvole sul Duomo

"Importante ci sembra, perciò, sottolineare innanzi tutto la citazione in prima pagina della frase: "Rimani con noi, Signore!" da Luca, dove va notata l'aggiunta del punto esclamativo, trasformante il sommesso invito dei discepoli antichi in invocazione o grido, quello dei cristiani moderni (…).

La trama è semplicissima e stringata. Una massa di operai scioperanti, di tutti i partiti, si agita sulla piazza, davanti al Duomo, reclamante i suoi diritti di aumenti salariali, ma anche ferita (ed è forse la maggioranza) per essere stata bandita dal tempio dal suo arcivescovo (...).

Si è detto che il lavoro manca di un interprete principale, perché protagonista è il Coro. Nuvole sul Duomo è perciò un dramma corale, il dramma di una massa di operai che cercano nei loro scioperi, come si è già scritto, nelle loro sommosse, nei loro lamenti, anche un appiglio superiore cui attaccarsi, con cui salvarsi, o almeno vedere più chiaro dentro di sé. Il loro potrebbe essere anche un lungo monologo e gli altri personaggi solo evocazioni del loro sentire: nel rancore, nella contestazione, nella maledizione, nel furore, nella sofferenza, nell'angoscia, nell'attesa.

Nuvole sul Duomo di Emilio Scampini (Ed. Anni 70, Milano 1972) è una libera trasposizione o interpretazione in chiave moderna dell’evangelico episodio di Emmaus. Episodio quanto mai suggestivo, crepuscolare, malinconico come le sere del dantesco Purgatorio, episodio dal quale l'autore fu certamente ed a lungo affascinato.

Pensare alla tragedia classica o fare i nomi di Eliot, Pasolini (come ha visto Stefano Crespi) o di Brecht (come vedrei io, quello per esempio di "Santa Giovanna dei Macelli") serve e non serve. Brecht intanto nel '48 era pressoché sconosciuto nel nostro paese. Sconosciuto anche Pasolini. Solo Eliot era già ben presente. Ma i richiami, ripeto, non sono necessari, se mai sarebbero indicativi dell'epoca.

Ogni autore, infatti, respira l'aria del suo tempo, ma alla fine non è che se stesso; con gli altri può diventare un esponente corale; da qui allora certe affinità (ma viste a posteriori) anche fra lontane regioni e paesi. Lo stesso potrebbe valere per l'idea del nuovo teatro oratoriale dello Scampini, che è una novità sì d'impostazione scenica, ma aleggiante già nel nostro tempo, tanto che lo Scampini stesso rivela, in una sua interessante Nota, in appendice al dramma, anche la fonte d'ispirazione. Ma questa potrebbe risalire ancor molto più in giù nel tempo, agli stessi "Nô" giapponesi (e l'autore, in una nostra intervista, non l'ha taciuto).

Quello che vale, però, è la resa, sul piano poetico, di questa nuova concezione. Poesia cui lo Scampini apertamente aspira e che in più di un momento, parecchi anzi, riesce a raggiungere (…).

Abbiamo inoltre lasciato nella penna l'analisi estetica particolareggiata del lavoro, ma il discorso andava pure arginato. Noteremo soltanto l'andatura del verso, volutamente prosastico e corrente, che tuttavia sa trovare le sue belle impennate a tempo giusto, e la preferenza per la mediazione della lingua parlata, da potersi oggi rivolgere a tutti per essere intesa da tutti.

Un ultimo accenno però andrebbe giustamente fatto anche alle qualità di bozzettista dello Scampini. Le soluzioni che egli propone nei suoi bozzetti scenici sembrano riferirsi all'ultima parte della già citata Nota, quella cioè che fa una concessione ancora al teatro-spettacolo invece di ridurlo ad un nudo teatro-orchestra, ma sono pure la più bella prova e la conferma delle evasioni dal contingente, dal tempo, dal reale per atmosfere fantastiche, fiabesche o evanescenti, come ha ben capito il Crespi. Si osservi il Duomo di Milano nelle fiamme del tramonto in un paesaggio montano, da vecchia favola nordica, o il Duomo che compare tra le nebbie diradantisi sull'ancor denso nuvolato, come una magica visione, o quello, assai riuscito e suggestivo, di uno spiazzo aereo dietro al quale svettano in contro luce tre guglie soltanto del Duomo, o quello ancora di un fianco del duomo, immedesimato con una montagna, entro cui si apre il sacro portale, mentre sullo sfondo del cielo, solcato da una pioggia di nuvole di fuoco, si stagliano ancora due guglie.

Se era necessaria una prova di più per capire il teatro fantastico dello Scampini, questa ci è offerta appunto dai suoi bozzetti, attraverso una via di vera "liberazione poetica", quale appunto intuì il Crespi ancora, e noi siamo d'accordo con lui".

·     Vito Sereni (Luce e progresso, n°3, Milano, 1974)

"...Nelle poesie dello Scampini il problema della forma ha la massima importanza. Innanzitutto il suo linguaggio non è per niente opera di semplice disinvoltura, di faciloneria o di superficialità, come potrebbe sembrare a prima vista ad occhi profani. Il suo stile non ricercato, immediato, apparentemente dimesso, talvolta scanzonato, da sembrare improvvisato lì per lì, è più complesso di quel che sembri; la scelta di certi vocaboli più alla mano o antipoetici o addirittura presi dal gergo (ma scelta è!) possono trarre in inganno, tuttavia, come è già stato notato da qualche critico tra i più acuti, quella dello Scampini è arte indubbiamente sapiente, espertissima, scaltra direi, e magari anche faticosa (…) Fra i poeti italiani del nostro tempo è l’unico forse, dopo Montale dell’ultima maniera, che è riuscito a far sua la lezione della moderna poesia americana USA con l’impiego di una tecnica la più spontanea possibile, alla portata di tutti per una comunicazione immediata e comprensibile (…) La rottura però con l’aulicità non è drastica né inconsulta (…) Scampini è riuscito a compiere la più difficile mediazione: quella tra la grande arte classica e il linguaggio parlato di tutti i giorni..."

Enzio Di Poppa Volture  (da "Rosa di Poeti", in Giustizia nuova, 1974- 1975)

 "...Anche se non è una raccolta di liriche, questo lavoretto (Nuvole sul Duomo, ed. Anni 70, Milano) ci sembra degno di doverosa attenzione proprio per la carica lirica di cui risente (…) l’afflato lirico che lo percorre e che fa muovere gli individui e le masse, e l’aspirazione a una giustizia e a una pace sociali e il sogno di europeismo che continuamente ne traspare (…). La ricerca di Dio che è al fondo di ogni anima pensosa e di ogni umana intelligenza, si libra qui al di sopra del concionare degli arruffapopoli e vi trova accenti che, parafrasando il Vangelo, risuonano come messianici..."

.   Franco Cajani (Alla bottega, Milano, nov./dic. 1976)

 "...questo grande studioso di Fogazzaro, che però ha dato anche un valido apporto con quella schiera di poeti che si inquadrano nella primizia della quarta generazione: quella generazione che va da Sala a Raboni, da Fabiani a Zanzotto, da Gramigna a Giudici (…) Naturalmente questo poeta si entusiasma per la sua contemporaneità, come l’hanno entusiasmato per altre spiagge Ada Negri e Giacomo Leopardi (…), un poeta che ha nel sangue il verso che diversifica generazioni, ma dove in ogni caso emerge sempre l’uomo, con il suo apporto intellettuale e indiscriminato..."

·   Carlo Saggio (Milano, agosto 1981)

 "...Ed ha questo tuo discorso, come tutto ciò che vive, un suo ritmo, che è ritmo della tua anima, ritmo del tuo candore attonito, del tuo stupore affettuoso, del tuo impulso e volo, della tua sensuosa ardenza, della tua tristezza ansiosa e dolente, del tuo bisogno di sogno e d’infinito...".

·  Franco Cavarocchi (dalla recensione di "Carlo Barrera Pezzi, lo storico di Valsolda" su Il Confine, nov./dic. 1987)

"...Emilio Scampini, noto poeta, scrittore e specialista per le opere fogazzariane, ha redatto un libro generoso di notizie e ricco di notazioni su Carlo Barrera Pezzi, poeta, storico, artista, pittore e architetto (…). (L’opera) di Emilio Scampini, cui va lode per le pazienti numerose ricerche, è un libro di alto valore culturale...".

·  Angelo Lodi - dal racconto "Una mite follia" (Il Ticino Mese, n.° 35, luglio-agosto 1988)

"...Ecco, sì, l’Emilio gli aveva scritto un qualcosa di straordinario e (…) a lungo fermò la sua riflessione sulla sensibilità dei poeti. Essi sanno raccogliere e rivelare sensazioni minime.

Sono come la luce radente che al tramonto ti rivela il crinale di un monte stagliandolo netto contro la luminosità del cielo e ti rivela una pianta e un pinnacolo e una fenditura che nella pienezza del giorno nessuno vede. Essi sono come la carne ferita che sente, dolorosamente, quegli stimoli minimi che sono altrimenti indifferenti...".

·  Pinuccio Castoldi

 -da "Gli incanti della tessitura" nella poesia di Emilio Scampini" (Il Ticino Mese, n.° 8, febbraio 1986)

"...La vita della fabbrica, per l’esattezza della tessitura, è un soggetto tematico di grande rilevanza nella poesia di Emilio Scampini, poeta e scrittore lombardo che ha saputo dar voce in modo egregio agli umori anche più sottili della nostra terra.

Scampini si è trovato a vivere a contatto con l’ambiente della tessitura fin dall’infanzia, dal momento che il padre era proprietario di uno stabilimento tessile a Bienate (…)

 Ma (...) la tessitura (…) è anche un luogo pieno di incanti, da cui il nostro poeta riesce a trarre imprevedibili motivi di ispirazione (…)

 In particolare il poeta sa cogliere i mutamenti delle stagioni, che coinvolgono la fabbrica come se fosse una parte integrante della natura (…).

Scampini, che è un uomo di grande profondità, non ignora certo il discorso politico-sociale (…), semplicemente preferisce collocarsi, nella sua produzione lirica, su di un piano più interiore, più delicato, più fantastico (..)"

-da "L’oscuro cugino di Fogazzaro - Un saggio di Emilio Scampini" (Il Ticino Mese, n.° 41, febbraio 1989)

"...Emilio Scampini è ben noto ai lettori di Ticino Mese grazie alla sua assidua collaborazione alla rivista (...). La sua ultima fatica è costituita dalla biografia di Carlo Barrera Pezzi (1832-1896), cugino del ben più famoso Antonio Fogazzaro (…). Il saggio di Scampini rende giustizia ad un personaggio ormai dimenticato, mettendo in rilievo il ruolo non trascurabile che ebbe nella cultura artistica del secolo scorso e gli influssi, certo non determinanti, ma neppure del tutto irrilevanti, che esercitò sul Fogazzaro (...)

Nello stesso modo l'Autore è riuscito a farci partecipi dell'orgoglio che il Barrera sentiva nell'essere valsoldese, quando, parlando degli Statuti di Valsolda, diceva "essi farebbero onore a qualsiasi società, che fosse pure infinitamente maggiore alla piccola terra ond'ebbero origine", o quando, parlando dei Valsoldesi (cap. IV) il Barrera non trovava altri artisti così numerosi, come nelle valli del Ceresio, in altre città d'Italia se non all'infuori di quelli di Toscana..."

· Giorgio Mollisi - Prefazione a "Carlo Barrera Pezzi, lo storico di Valsolda", Besana Brianza, 1987

"… Lo studio che pazientemente l'Autore, dopo numerosi anni di ricerca in Valsolda e nel Veneto, vuole presentarci, ci mostra un Barrera non solo nelle vesti di storico, per cui è dalla maggior parte conosciuto, ma nelle vesti dell'artista e dell'uomo radicato alla sua valle per la quale assume, nelle descrizioni sulla sua Storia, dei toni lirici sorprendenti.

Vi si sente, nella descrizione, un attaccamento particolare a questi monti, a questo lago, un amore filiale così profondo che solo un valsoldese può comprendere nella sua pienezza.

L'Autore è riuscito a cogliere con molta sensibilità questo stato d'animo del Barrera e a sottolinearlo fin dalle prime battute, quando si parla delle pagine introduttive della Storia della Valsolda.

È riuscito a trasmetterci quello "strazio" che il Nostro ha sofferto per la lontananza forzata dalla sua valle (Lettera da Roncade, cap. II).

· Felice Monolo

-da "La guerra di Troia di Giraudoux e quella di Scampini" (Il Ticino Mese, n.° 22, maggio 1987) dalla recensione su "Piccola Iliade"

"...Nel trattare una materia traboccante di umanità lo scrittore si serve di uno stile lirico-evocatorio che, nel riprodurre i sentimenti, le passioni, le azioni contemplate nel testo omerico, li rappresenta con molta chiarezza e semplicità (…) e carica gli episodi della vicenda di una sensibilità moderna, angosciante e disperata. La guerra non porta solo distruzioni materiali, ma soprattutto colpisce l’uomo nei suoi affetti più intimi, lo atomizza nell’animo, lo riduce a cosa, o peggio, a bestia in balìa di un destino crudele ..."

-da "Le poesie della prima giovinezza di Emilio Scampini (1935-1941)" (Il Ticino Mese, n.° 37, ottobre 1988)

"...Lo Scampini, umilmente, ma coraggiosamente (soprattutto se si pensa all’età in cui egli ha scritto queste poesie e al momento storico) ha rifiutato le sollecitazioni della cultura ufficiale accademica e trionfalistica, di cui agevolmente si ornava l’etica fascista, per raccontare con semplici mezzi espressivi l’angoscia e il male di vivere di un giovane smarrito in un mondo sempre più osannante alla guerra e raccogliere le voci solitarie del cuore, gonfio di speranze, ma già vocato alle lacerazioni dell’animo.

 Poesia quasi tutta intimistica quella dello Scampini e soggettiva nel senso letterale della parola, di una semplicità virginale, che comunque poggia su una solida cultura classica, rivissuta nella sua essenzialità (i lirici greci) e verificata sempre nei termini della realtà attuale.

Poesia inoltre sostenuta da una musicalità ricca di suggestioni (…), poesia autentica che lascia il segno..."

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